venerdì 27 agosto 2010

Gratteri presenta il suo nuovo libro e parla di ‘ndrangheta a Filadelfia: «Non sarò mai solo finché ci sarà chi crede nel mio lavoro»

Il presente articolo non è un comunicato stampa, ma un resoconto personale scritto dal giornalista Enrico De Girolamo, che ha moderato l’incontro-dibattito con il magistrato Nicola Gratteri tenutosi ieri, giovedì 26 agosto 2010, a Filadelfia, in provincia di Vibo Valentia. L’eventuale pubblicazione, dunque, è consentita soltanto a firma dell’autore.



Nicola Gratteri (foto) arriva in orario, alle 21.30, preciso al minuto. La sala è già affollata e l’auditorium di Filadelfia sembra improvvisamente troppo piccolo per contenere l’interesse e la curiosità per questo magistrato che sta alimentando in tanti calabresi la speranza di un riscatto dalla ‘ndrangheta.
La scorta lo segue e lo precede con discrezione, come ormai fa da più di 20 anni. Nel 2005, nella piana di Gioia, venne scoperto un deposito di armi e di esplosivo che sarebbe dovuto servire per farlo saltare in aria e dare il suo nome a qualche piazza o via italiana. Amen e avanti il prossimo.

Così non è stato e Gratteri, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria, è oggi uno dei magistrati più noti della Dda. Noto non soltanto agli ‘ndranghetisti, che ha catturato e fatto condannare a centinaia, ma conosciuto anche dal “grande pubblico”, quello che leggendo le cronache giudiziarie fa attenzione soprattutto ai cognomi in grassetto. Non sono rare le sue apparizioni in tv, soprattutto da quando, nel 2007, ha pubblicato insieme a uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta, Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, la prima dettagliata geografia della galassia dei clan calabresi, raccontandone la struttura ed i codici. Un’opera monumentale, nel suo genere, che «all’inizio non voleva nessuno perché non era considerato un buon affare editoriale», afferma.
Ieri sera era a Filadelfia, nel Vibonese, per presentare il suo nuovo libro, La malapianta, scritto ancora una volta insieme a Nicaso, con cui conversa pagina dopo pagina in una lunga intervista che traccia in maniera più fruibile il passato e il presente della ‘ndrangheta. Ad attenderlo c’erano il presidente dell’associazione Filadelfia Nostra, Maurizio L’Abbate, e il sindaco Francesco De Nisi, che hanno promosso l’incontro-dibattito.
Arriva, e in molti si avvicinano per salutarlo. Lui, invece, non si perde in convenevoli. «Cominciamo, cominciamo…», dice, mentre si avvia svelto verso il tavolo dei relatori, al quale dopo poco siederà anche il consigliere regionale Bruno Censore.
Ma la sua non è fretta di fare presto, piuttosto impazienza di parlare, di dire la sua, desiderio di denunciare le storture, le contraddizioni di un sistema che, ad esempio, vuole limitare le intercettazioni - che il magistrato reggino considera «uno strumento di indagine insostituibile e garantista» - e invece non fa nulla per facilitare le notifiche degli atti processuali, un procedimento tortuoso e pieno di falle che da sempre è una palla al piede per la giustizia
italiana.
«Basterebbe una settimana e si potrebbe eliminare questo assurdo meccanismo sostituendolo con la posta elettronica certificata e con la consegna degli atti processuali in formato digitale - afferma Gratteri -. Invece no. Perché il potere politico non vuole un sistema giudiziario efficiente, non vuole agevolare i controllori. Non lo vuole nessuno, né a destra né a sinistra. E ai mafiosi va bene così».
La ‘ndrangheta, appunto. È qui per parlare di questo.

La prima domanda non può che essere per i fatti di Reggio, dove la scorsa notte una bomba è stata fatta esplodere dinanzi la casa del procuratore generale del Tribunale, Salvatore Di Landro. La sua risposta è cauta, a tratti sibillina: «Non dobbiamo giungere a conclusioni affrettate. La ‘ndrangheta può arrivare a commettere atti tanto eclatanti, ma non è detto che tutto ciò che accade sia causato dalla ‘ndrangheta».

La sala ora è letteralmente gremita. Un colpo d’occhio inusuale per un dibattito serale sulla mafia in un piccolo centro calabrese. A dire il vero è inusuale anche che ci sia proprio il dibattito. Un concreto motivo d’orgoglio, dunque, per gli organizzatori e per chi si è ritrovato qui questa sera. Una partecipazione percepibile che genera un latente sentimento di speranza. Ma Gratteri avverte: «La ‘ndrangheta scomparirà quando scomparirà l’uomo, ma intanto la si può combattere, contrastare efficacemente, a patto che ai magistrati vengano dati gli strumenti giusti». È il suo chiodo fisso: mezzi d’indagine adeguati, certezza della pena, carcere duro e senza sconti. «Senza queste cose - dice - è impossibile sconfiggere un’organizzazione che ha un “fatturato” annuo di 44 miliardi di euro, pari al 2,9 per cento del Pil italiano; un’organizzazione che controlla il traffico internazionale della cocaina e fa affari in tutto il mondo, che è presente nell’alta finanza ed è infiltrata a fondo nelle amministrazioni pubbliche, e non soltanto in Calabria; un’organizzazione che arruola i giovani col miraggio dei soldi facili e le lusinghe del “rispetto”, senza dire loro che pezzenti sono entrati e pezzenti ne usciranno, perché gli unici ad arricchirsi sono i capimafia, quelli che decidono se puoi aprire un negozio, ma anche da chi devi comprare le mattonelle del bagno. Soprusi a volte economicamente irrilevanti rispetto ai guadagni stratosferici che fanno con il traffico di cocaina, ma necessari per affermare il loro potere, per segnare i confini del territorio e mettere la gente sotto una cappa di terrore».
Diecimila, tanti sono gli ‘ndranghetisti soltanto nella provincia di Reggio Calabria, eppure sono ovunque. «Nelle amministrazioni pubbliche, certo, ma anche e soprattutto tra i ranghi della classe dirigente - denuncia Gratteri -. La ‘ndrangheta non è quella caricatura stracciona della mafia siciliana come si credeva erroneamente in passato, ma è fatta anche di professionisti, di gente che conta socialmente, di esperti di finanza ed economia».

Le domande sono tante e Gratteri non si sottrae, né guarda l’orologio. Vuole raccontare, spiegare, svelare quello che lui definisce l’inganno: «I successi contro la criminalità organizzata degli ultimi anni, le centinaia di arresti, i blitz più clamorosi, non sono successi di questo governo né di quelli precedenti. Mi chiedo come si faccia a rivendicare politicamente il risultato di indagini avviate molti anni prima».
Ma è il disegno di legge sulle intercettazioni che proprio non manda giù: «Se vuoi porre la questione in maniera onesta non puoi affermare che in Italia ci sono 7 milioni di intercettati. Io, per intercettare 50 persone, ognuna delle quali cambia scheda telefonica ogni due giorni, devo mettere sotto controllo diecimila utenze. Ma questo non vuol dire che avrò intercettato diecimila persone, ma solo 50».

E la privacy? L’uso distorto delle conversazioni private che non hanno rilevanza penale? «Un fenomeno deprecabile - dice -, che si può eliminare grazie alla tecnologia, ma senza buttare l’acqua sporca con il bambino».
Il libro offre tanti spunti, il pubblico lo incalza e sono molti i giovani presenti in sala che fanno domande, cercano di capire davvero. Qualcuno gli chiede se si senta solo nella sua battaglia, un recluso, costretto com’è a vivere sotto scorta da 20 anni.
«C’è tanta gente che crede nel mio lavoro, che sento vicina - risponde -. Non cerco la libertà fisica, ma quella interiore. Ogni giorno ricevo lusinghiere proposte professionali che mi permetterebbero di lasciare il mio incarico e guadagnare molti soldi. Ma mi sentirei un fallito se lo facessi, un vigliacco. Preferisco continuare, dicendo sempre quello che penso, anche cose che possono compromettere la mia carriera. Ma per me è questa la vera libertà».

L’incontro si avvia al termine. Ormai è notte fonda e il nuovo giorno è iniziato da un pezzo. La sala però offre lo stesso colpo d’occhio dei primi minuti, con tanta gente in piedi e gli organizzatori visibilmente soddisfatti per il successo di una serata che ha avuto lo stesso sapore di una boccata d’aria fresca.
Molti hanno il suo libro in mano e prima di lasciare l’auditorium se lo fanno autografare. Su alcuni il magistrato scrive “Grazie per l’affetto”. È il suo modo di ribadire che non si sentirà mai solo finché ci saranno calabresi disposti a credere nel suo lavoro.
Enrico De Girolamo

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